La bellezza non ci lascia in pace...
- Press Office
- 2 mag 2020
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 14 mag 2020
Intervista a Rodolfo Montuoro di Gianluca Veltri, “Mucchio Selvaggio”
“La musica che ascoltiamo agisce su di noi e ci trasforma. Trasforma la nostra immaginazione, l’assortimento dei nostri desideri e il nostro modo di sentire e di comunicare.”

È un autunno soleggiato, quello di Rodolfo Montuoro, esordiente davvero brillante con “a_vision” (Auditorium), un album di visioni e bellezza, traboccante di paesaggi e di emozioni. “La bellezza ci commuove”, dice Montuoro, “non ci lascia in pace a goderne spensierati. È come se non bastassero gli occhi e i sensi per comprenderla tutta... Forse bisognerebbe soltanto accettarla così com’è.”
“a_vision” è venuto fuori come lo avevi desiderato?
Da “a_vision” ho ottenuto tutto. Ed è esattamente come volevo che fosse, con le persone che volevo coinvolgere, il mood che mi stava a cuore, le parole, le melodie, le pause, i paesaggi sonori. Ero così contento del lavoro svolto che ho subito voluto provare alcuni pezzi dal vivo in un set ad Arezzo Wave del 2005, alcuni mesi prima che uscisse il disco, insieme ai miei compagni di ventura. Un cosa che di solito non si fa e cozza contro tutte le strategie di marketing. Del resto, l’obiettivo non era certo quello delle vendite. Quando il disco è uscito, ho avuto anche la fortuna di ottenere un corteo di belle e autorevoli recensioni. E le attenzioni non si sono spente. L’interesse continua a crescere, tra luglio e ottobre sono stato impegnato in un vero e proprio tour tra le emittenti radiofoniche in tutta Italia. Tutto questo mi ha dato la carica, tant’è che mi sono subito messo al lavoro per il prossimo album che veleggia benissimo e uscirà entro la primavera dell’anno prossimo.
Sapresti indicare quale mood prevalente hai cercato per la tua musica?
Un mood che richiamasse nebbie, tempeste e sprofondamenti tellurici faceva parte dell’idea da cui è nato “a_vision”. Avevo bisogno, per questo album, di un temperamento epico, di sonorità rotonde e maiuscole. Alcuni motivi, mentre mi venivano in mente, li ho immaginati proprio con la potenza cardiaca di Massimo Giuntini, uno dei più valenti maestri di cornamusa irlandese. Non a caso, un perfezionista come Martin Scorsese lo ha voluto con la sua cornamusa nel suo film Gangs Of New York . Sono numerose nell’album le melodie a ritornello, proprie della tradizione celtica. L’apporto delle cornamuse, del bouzouki, dei whistles le ha rese più potenti e penetranti, creando quell’effetto di intensità e di lontananza di cui avevo bisogno anche per aggrappare ai loro suoni la tessitura nervosa e sfuggente dei testi. Le liriche delle tue canzoni sono davvero speciali. Come nascono?
Come combatti l’usura delle parole?
I miei testi nascono dalla musica, dalla melodia, oppure – se vuoi – dal rumore cosmico. Quando afferro le melodie divento una specie di antenna o sismografo e mi imbambolo. Non posso partire dai testi perché non ho niente da dire, non ho un messaggio.
Come si crea il loro incontro con le musiche?
Diciamo che il tessuto melodico crea una rete con esche e uncini. Poi, così come fanno i pescatori, la butto in mare, il nostro mare metaforico. Ogni esca è fatta per una parola sola e nessun’altra. A volte, per catturare la parola esatta ci impiego anche dei mesi: non solo essa deve aderire perfettamente all’esca, ma anche alle altre parole già prese. Poi c’è l’ascolto. Anzi, la ripetizione dell’ascolto. Questa fase dura tantissimo.
Ossia, ti ascolti?
Sì, tanto. Alla fine, strofe e ritornelli della canzone, proprio per la loro inesausta ripetizione, si arrotondano come i ciottoli levigati dall’onda. Per me la canzone deve avere la forza suggestiva e poietica dell’invocazione. L’invocazione della buona fortuna, della buona vita, della buona sorte. L’invocazione trasforma le cose. Un modo per scongiurare il dolore e farsi cullare (e guidare) dai suoni e dalle parole giuste. Alla fine di tutto questo, la canzone mi si presenta con una sua autonomia, assolutamente sorprendente. Come se l’avesse fatta qualcun altro. Questo è forse un modo anche per non lasciarsi scoraggiare dall’usura delle parole. A furia di essere levigata, distillata, invocata, cantata e truccata, ogni singola parola, anche quella più familiare e umile di significato, perfino la sillaba o il sospiro, scopre la sua segreta inquietudine. Tutto ciò, ovviamente, vale per me. Non vale certo in assoluto.
Il tuo strumento è la chitarra, ma lo strumento-principe del tuo album mi pare la cornamusa.
Lo strumento musicale – sia esso chitarra, tastiera o computer – dev’essere una protesi, oppure come la lingua del formichiere. Questo non significa che io sia un virtuoso. Anzi, tutt’altro. Non ho mai suonato delle cover in vita mia. Le corde della mia chitarra sono come trappole e uncini alla ricerca di quei suoni e di quelle parole che si accordano al mio cuore e alle allucinazioni del futuro. La cornamusa è la coloritura dominante ed epica di “a_vision”. Adesso, per il nuovo album che sto preparando, lo strumento sarà il didjeridoo, un marchingegno antichissimo che convoglia tutto il fiato, tutta la “vita” che spira nei polmoni e la converte in un respiro possente che simula la forza e la precisione dei più sofisticati loop elettronici. Quindi non più l’artificiale che simula il naturale, ma viceversa. Non più il bit elettronico che finge il battito cardiaco. Ma è il battito cardiaco che, in quest’epoca di incertezze e ambiguità sentimentali, invoca una sua più naturale precisione nel “bit” originario dello strumento musicale, della “protesi”.
Quali sono le tue influenze?
Tutta la musica che ho ascoltato sinora, tutti i libri che ho letto, tutte le parole che mi hanno fulminato, tutto il dolore, gli equivoci e la felicità. Però posso farti un resoconto della musica che viaggia in questi giorni nel mio lettore mp3: i Frigo, Sophe Lux, Bree, Thom Yorke, i The Bran Flakes, le Coco Rosie, The Laura Simon Band, i South 33, Morrisey, Reeves Gabrels (ex chitarrista di Bowie), Tony Craig, David Sylvian, alcune vecchie canzoni di Cole Porter e un po’ di Clara Rockmore sulle onde del suo theremin. Come faccio a estrarre una linea da tutto questo disordine? Purtroppo è sempre stato così, per me. Questo per dirti che c’è sempre un pandemonio di stili, di generi, di musiche e musicisti nella mia list. Un ascolto forsennato, caotico ed erratico che genera continuamente influssi.
La musica che ascoltiamo agisce su di noi e ci trasforma. Trasforma la nostra immaginazione, l’assortimento dei nostri desideri e il nostro modo di sentire e di comunicare.
Gianluca Veltri, “Mucchio Selvaggio”, dicembre 2006
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