La visione della parola
- Press Office
- 3 mag 2020
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 14 mag 2020
Intervista a Rodolfo Montuoro di Simone Broglia, “Mescalina”
La parola e il suono, la voce e la melodia, la poesia e la canzone.
Con Rodolfo Montuoro parliamo di tutte queste cose e osserviamo come possano perdere i loro confini e mescolare le loro identità muovendosi verso nuovi approdi di significato.

Partiamo con un complimento, ho trovato il tuo disco, “a_vision” estremamente bilanciato: musica e parole sono in perfetto equilibrio e si intrecciano con molta eleganza. Trovo sia una cosa rara, cosa ne pensi?
La parola, da sola, comunica fino a un certo punto. C’è un limite insopportabile nella parola. C’è un grumo di immaginazione, di magnetismo sensibile, di presignificato, di battito cardiaco: c’è, insomma, un organo invisibile, una specie di polmone pensante che non ha parole. Ma non può starsene nel sottoscala dell’inconscio o del presagio: deve venir fuori dalla musica e dal canto. Del resto, alle origini della nostra tradizione letteraria, ai tempi di Dante, la “canzone” non era concepita come una forma unicamente scritta. La parola era fatta per essere cantata, proprio per amplificarne il senso. Ed è proprio questo lo scopo della rima che batte il tempo, che dà il ritmo e fa cadere l’accento (e l’attenzione) su un preciso segmento del significato. Se non ci fosse questa intenzione “espressiva” nella rima, essa suonerebbe ridicola, come un’ottusa filastrocca. A volte ci vogliono dei mesi per far venir fuori una buona strofa in cui la melodia circola naturalmente insieme al suo significato. Ecco: una parola cantata, per me, dice mille cose in più del suo concetto letterale. È una parola “truccata”, ma è anche più attraente, più rotonda, dice tante cose insieme e cattura più facilmente l’attenzione, oppure ti commuove o ti sorprende senza un apparente perché. Velocizza il pensiero, anche quello di chi ascolta, e arriva il più lontano possibile.
Anche la scelta dei musicisti, tutti presi dall’area celtica o dal jazz, trovo si possa legare al discorso fatto precedentemente.
Certo, il paesaggio sonoro, nelle mie intenzioni, non può essere desertico o minimalista. In questo album avevo bisogno di sonorità rotonde e colori netti, quindi bisognava mobilitare un’ampia gamma di strumenti, suonati in presa diretta. Avevo bisogno di un’epica e di uno spazio narrativo, volevo sentire respirare i flauti e le cornamuse per riprodurre l’affanno e le tempeste dei sentimenti. È stata creata una stratificazione complessa dell’orchestrazione, per dare luogo alle invocazioni, alle fughe, alle pause e alle vertigini del testo. Ma, soprattutto, era importante disporre di musicisti con un’abilità alta dello strumento, per creare l’ambiente naturale della parola. Questa intersezione tra l’aria celtica e quella jazz era quella giusta, quella più adatta a creare anche nel disco l’impressione che la musica non è riprodotta, ma si sta facendo proprio nel momento in cui l’ascolti. La direzione artistica di Massimo Giuntini, che è uno dei più valenti musicisti dell’aria celtica, mi ha permesso di realizzare tutto questo insieme a Vieri Bugli dei Whisky Trail (violino), Massimo Fabianelli (fisarmonica), Carlo Gnocchini (pianoforte e tastiere), Giacomo Lumachi (tromba), Daniele Malvisi (sax), Michela Munari (violoncello), Andrea Nocentini (batteria a spazzola), Fabio Puglia (chitarra e synth). Per alcuni brani ho potuto disporre anche della collaborazione alle percussioni di Gennaro Scarpato che ha saputo dare una coloritura unica a certi passaggi. Mentre l’attore Andrea Biagiotti ha interpretato, in un pezzo che si intitola “International Sea”, un recitato veramente esemplare che dà un’idea molto suggestiva di come intendo la contaminazione tra parola e musica.

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