Nel dna dei nostri sogni
- Press Office
- 2 mag 2020
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 14 mag 2020
Intervista a Rodolfo Montuoro di John Amoroso, “IndieZone”
Rodolfo Montuoro è sicuramente una delle figure più interessanti del panorama italiano, capace di far convogliare, con garbo, la sua vasta cultura nelle sue canzoni. Cerchiamo di capire cosa c’è dietro il suo nuovo ep dal nome “Lola”.

Lola, le mitologie della notte, qualche Germania dove tutto è possibile. Lola nella realtà esiste?
Lola è un’immagine, un fantasma, una silhouette che si intravvede da una porticina di un livido interno berlinese, riflessa in un qualsiasi frammento di questo nuovo millennio. Una figura misteriosa e fatale, sorpresa sulla soglia ultima della sua giovinezza mentre cerca di scrollarsi di dosso le maledizioni dell’Epoca e del tempo. Lola ci racconta i suoi sogni mentre si guarda allo specchio. Non esiste fuori dal suo sguardo. O forse, per noi, è sempre esistita.
Quali sono le tue maggiori influenze letterarie?
La letteratura, la poesia, la conoscenza scientifica o gli intrattenimenti del pensiero costituiscono ormai per me, come per tutti quelli che vivono di parole, una specie di pratica respiratoria ininterrotta. E così mi è molto difficile stabilire, in queste boccate d’aria, quali sono i componenti di ossigeno, di azoto o di anidride carbonica... Diciamo pure che non sento nessun imbarazzo a lasciarmi suggestionare da qualsiasi gesto artistico o letterario che mi emoziona o che mi fa immaginare qualcosa di nuovo o di diverso. Mi piace molto farmi influenzare. Così passo indisturbato, senza esaltazioni o ripugnanze, dal sublime al trash. Sia in letteratura che in musica o nelle arti figurative. In quest’epoca della mia vita, mi affatica il pensiero di coltivare delle predilezioni. Posso solo dire che sono un lettore, un ascoltatore e uno spettatore molto inquieto e vorace. E, in questa sontuosa digestione bulimica, passa proprio di tutto.
Per quanto riguardano le influenze musicali? Franco Battiato per te è stato importante?
Devo confessare che di Battiato conosco solo la produzione dei primi anni settanta (“Pollution” e “Sulle corde di Aries”). Naturalmente, come tutti, ho apprezzato molto l’ironia e la geniale leggerezza di “L’era del cinghiale bianco”. Riconosco il suo alto valore nel panorama della musica contemporanea. Ma la mia conoscenza musicale di Battiato si ferma qui. Invece, di lui amo molto la voce. Anche se può sembrare sorprendente, mi ricorda Bryan Ferry. Certo, si tratta di due vocalità del tutto differenti. Ma l’associazione, per me, sta nella loro prodigiosa capacità di creare con la sola voce – a prescindere dalle parole o dai significati – un’eco di lontananza e di nostalgia.
In “Labyrinth”, nel pezzo iniziale, ho ritrovato i Radiohead, i bit di Thom Yorke nel suo disco solista.Vero?
Quando, nel 2006, è uscito “Eraser” di Thom Yorke, ricordo di averlo letteralmente consumato a furia di ascoltarlo, soprattutto il brano “Analyse” che poi ho anche ritrovato nella bellissima versione solo piano e voce al Mercury Music Awards. Sì, in effetti, mi è davvero congeniale il modo compositivo di Yorke e dei Radiohead. È inevitabile che si percepisca la parentela stilistica.
Sai io nella tua voce ci ho trovato: Battiato, Concato e Ivan Graziani. Che ne pensi?
Di Concato non ho né l’estensione vocale né quella sua inimitabile sincope swing. Anzi, credo proprio che la mia voce sia in antitesi allo swing. Non appartiene al mio mondo e ai miei ascolti. La “velatura” malinconica di Battiato forse mi deriva dalle comuni origini meridionali, da un certo orientalismo naturalmente incline all’evocazione e all’invocazione, registri che sono sempre echeggiati sulle sponde estreme del mediterraneo.
Ivan Graziani, invece, è un musicista che ho molto amato, non solo per l’anticonformismo, ma soprattutto per il suo sofisticato temperamento vocale, alla stesso tempo melodico e rock.

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